Neet generation. Gioventù sprecata

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  1. Ankh
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    CITAZIONE
    Li chiamano Neet. Non studiano e non lavorano. In Italia sono oltre due milioni, il 22,7 per cento degli under 30. La percentuale più alta d’Europa. E il fenomeno cresce con la crisi. Storie di ragazzi in bilico, tra speranze lontane, fallimenti quotidiani e lavoretti mal pagati. Dimenticati dal welfare e dalle istituzioni

    Abbassa gli occhi Alice, 25 anni, quando racconta le sue giornate vuote: «Non fare niente mi uccide». Ha lasciato gli studi dopo un anno alla Nuova accademia di Belle arti a Milano, e non ha ancora trovato la sua strada. Così è tornata a casa dei genitori, tra collaborazioni gratuite e pomeriggi passati alla tivvù o al computer, immersa nella musica o nelle riviste di fotografia. Per le statistiche è una Neet (Not in education, employment, training): una dei 2 milioni e 155mila giovani italiani che “non studiano, non lavorano, non si formano”. E che piano piano si arrendono. Un esercito di ragazze e ragazzi tagliati fuori dalla società. Anche se ha pochi giovani, l’Italia detiene il record di Neet in Europa occidentale: nel 2011 gli inattivi hanno raggiunto il 22,7 per cento della popolazione tra i 15 e i 29 anni, crescendo di 3,4 punti dal 2008. Quasi 1 su 4. Un dato in costante aumento e molto distante da quello tedesco (10,7), francese e inglese (14,6). Nell’Unione allargata, solo la Bulgaria ha tassi peggiori dei nostri. Un fenomeno che un tempo colpiva essenzialmente le donne del Sud e che con la crisi si è diffuso anche tra i maschi e nel dinamico Nord. I numeri più gravi, però, sono ancora nel Mezzogiorno, che nel 2010 aveva un 30,9 per cento di Neet, contro il 16,1 del resto del Paese.

    Tra hostess e volantini

    Non che Alice, milanese da quando aveva 10 anni, non ci abbia provato a trovare un impiego. Timida e minuta, ha fatto occasionalmente la baby sitter e la hostess di eventi per alcune agenzie del capoluogo meneghino. Si è iscritta a tutti i “trova lavoro” che ha visto online, mandando curriculum per fare la commessa. Ma nessuno l’ha mai chiamata per fare colloqui. Il suo vero sogno è fare la fotografa, anche se non sa ancora se le piacerebbe di più dedicarsi alla moda o agli scatti naturalistici. Intanto il tempo passa. «Mi sono un po’ persa nei sogni», ammette Alice. «Mi manca la capacità di buttarmi. Così perdo i treni…». Adesso è scoraggiata: «Non troverò mai un lavoro», dice con il terrore di trovarsi a carico dei genitori anche quando avrà 30 anni. Del resto le statistiche lo dicono chiaramente: il 21 per cento dei Neet non cerca lavoro perché crede di non riuscire a trovarlo, il 20 per cento per motivi familiari (cura di bambini o anziani), il 13 per cento per le criticità del territorio. Una condizione, quella dei giovani che non studiano e non lavorano, che negli ultimi anni si sta trasformando in una gabbia dalla quale è sempre più difficile fuggire: meno di un terzo ne esce nel giro di un anno. Gli altri si avvitano in uno status che non hanno scelto ma che li fa restare indietro. Nel 2011 il ministero del Welfare li fotografava così: il 46 per cento dei Neet ha al massimo la licenza media, il 34 per cento è disoccupato, il 30 per cento è scoraggiato. Invece di tornare sui banchi di scuola, i Neet si iscrivono a corsi lampo. Alice, ad esempio, ha provato con la fotografia digitale e da un mese collabora gratuitamente con una rivista per imparare il mestiere di photoeditor. Perché i lavori che ha trovato sinora erano tutti poco interessanti e pagati male: «Mi offrivano 5 euro l’ora per volantinare fuori dalle palestre per convincere la gente a iscriversi». Ha detto di no e si è trasferita nella Capitale: «Almeno a Roma c’è la casa dei miei».

    Una vita giorno per giorno

    L’arcipelago dei Neet è molto variegato, perché va dal giovane che lavora in nero a quello che nemmeno esce più di casa. La maggioranza si arrangia. «Vivo alla giornata», ci dice Valeria, minigonna jeans e scarpe da ginnastica imbottite. L’abbiamo incontrata su una panchina, fuori dal centro commerciale di Porta di Roma, periferia nord della Capitale. Ha lasciato il liceo al quarto anno per dedicarsi alla pallavolo, ma problemi fisici le hanno impedito di continuare. Adesso, 25 anni e un po’ sovrappeso, vive con le mance che le lascia la nonna: «Mi rendo utile portandola a far la spesa o aiutandola in casa. Così almeno non peso sui miei genitori». Ha un’automobile da mantenere, racconta. Per il resto, limita le spese all’essenziale: «Esco a cena una volta al mese e faccio ancora le vacanze coi genitori», confessa. Anche lei ha mandato tanti curriculum via internet e adesso non ci crede più: «Dopo tante porte sbattute in faccia, ti passa la voglia. Eppure sono una che si adatta». Ha provato con le vendite porta a porta: 500 euro al mese, più le provvigioni, ma alla fine le hanno dato solo 130 euro. «Tra pasti e benzina, mi costa meno stare a casa». Anche il call center si è rivelato una truffa: «Un mese di lavoro per meno di cento euro. Nemmeno come donna di servizio trovo. Non è un Paese che funziona. Per avere un lavoro devi avere gli amici giusti». Non che abbia grandi ambizioni, Valeria: «Mi accontenterei di fare la commessa in un negozio di scarpe. Ma ti chiedono uno o due anni di esperienza, anche per fare la cameriera. Siamo ormai un Paese da terzo mondo. E pensare che mio padre con la terza media ha trovato subito un impiego. Spero solo che chi deve pagare per questa situazione paghi», dice scagliandosi contro «il sistema, in generale».

    Valeria conferma quello che dicono le ricerche: i Neet hanno un livello di fiducia nelle istituzioni più basso dei coetanei che studiano o lavorano. «Possono percepire che le autorità non hanno la capacità di risolvere i loro problemi», sottolinea uno studio di Eurofound del 2012. La Fondazione della Ue ha stilato anche l’elenco dei fattori che facilitano lo scivolamento nell’inattività: qualche tipo di disabilità, un background di immigrazione, un basso livello di istruzione, vivere in zone remote, un reddito familiare basso, genitori disoccupati, con un basso livello di istruzione o divorziati. La ricerca ha calcolato persino quanto costa la mancata partecipazione dei Neet al mercato del lavoro. Il conto più salato lo sta pagando proprio l’Italia: 26 miliardi di euro l’anno (l’1,7 del Pil). Se potesse scegliere, Valeria farebbe l’autista di autobus. «Ma serve una patente speciale, che costa 5mila euro. E poi non ci sono garanzie di essere assunti». Così, meglio non fare niente. Giorno dopo giorno. «A stare a casa buttata sul divano divento scema. Allora esco: vado a fare una passeggiata o mi fermo a guardare la faccia della gente. Certo, c’è anche un discorso di realizzazione personale…», dice con un po’ di amarezza. Adesso si sta concentrando sul suo matrimonio. Con il fidanzato, entrato da 6 mesi nell’esercito, aspetta di potersi trasferire fuori Roma: «Nelle piccole città la vita costa meno. Spero che almeno lì ci sia un futuro». Del resto, se c’è un campo nel quale si ritiene un’esperta è «l’arte dell’arrangio». Ancora più confusa appare la sua amica Anna, 21 anni, minuta e silenziosa nella sua canottierina con le paillettes. Ha lasciato gli studi dopo il primo anno di superiori perché l’istituto che frequentava aveva cancellato l’indirizzo che aveva scelto, quello per stilisti. Ha pagato 3mila euro per un corso di una settimana da modella: ma invece di ottenere un impiego come le era stato promesso, si è trovata a fare sfilate senza nemmeno i rimborsi per gli alberghi. Adesso vive a carico dei genitori, in attesa di metter via mille euro per permettersi un corso da “make up artist”, truccatrice. Ma la strada è in salita, perché tutte le offerte di lavoro chiedono l’esperienza. Così le restano i lavoretti saltuari: «Una notte ho dato volantini davanti a un locale, dalle 22 alle 3 di mattina, con i tacchi sui sanpietrini. E ho guadagnato solo 20 euro…».

    Generazione sprecata

    «I Neet aumentano perché si inaspriscono le difficoltà economiche», ci spiega Alessandro Rosina, docente di Demografia all’università Cattolica di Milano. «Purtroppo l’Italia offre poche opportunità alle nuove generazioni. Così ci ritroviamo una platea di giovani che sono una risorsa sprecata del Paese. Da noi il vero ammortizzatore sociale è la famiglia. Negli altri Paesi se un ragazzo è disoccupato può contare su un sostegno al reddito e politiche attive che lo aiutano a trovare un impiego». In Italia questi strumenti non esistono: «Chi perde il lavoro torna a vivere con i genitori e può restarci sine die. Rischiamo di sottovalutare il fenomeno, che invece ha delle conseguenze devastanti. Perché più a lungo si rimane Neet, più è difficile ricollocarsi. Stiamo costruendo i poveri del futuro». Quello che l’Italia crede di risparmiare oggi non investendo sui giovani, avverte il professor Rosina, rischia di pagarlo domani in politiche di assistenza. Sul banco degli imputati finisce il nostro welfare, ma anche il modello culturale imperante: «La nostra società è diventata una fabbrica di dipendenza dei giovani. Non incoraggia l’autonomia. Abbiamo trasformato la propensione all’aiuto dei genitori in un alibi per non fare politiche attive». Non a caso, fa notare Laura Linda Sabbadini, direttore del dipartimento di Statistica sociale dell’Istat, «in Italia la crisi ha colpito in particolare i giovani: più dell’80 per cento della perdita di occupazione si è concentrata su di loro. C’è poi un problema di percorsi formativi. Nel nostro Paese il non studio è caratterizzato fortemente dall’origine sociale: sono i figli delle classi sociali più basse a lasciare prematuramente». A sottolineare il rapporto tra abbandono scolastico e Neet è anche Giuseppe Roma, direttore del Censis: «La scuola non è più vissuta come occasione di miglioramento perché offre pochi sbocchi. Così si crea il limbo dei Neet, ragazzi e ragazze che si chiamano fuori. Paghiamo anche una cultura che vede nel lavoro manuale un impiego di serie B. Servirebbe un investimento nel venture capital, per permettere ai giovani di fare impresa, e nell’istruzione intermedia. Costretti in questa condizione di passività, gli under 30 perdono importanza». Le ultime ricerche avvertono che, con l’aggravarsi della crisi, in Italia, Grecia e Portogallo il diploma non fa diminuire il rischio di restare disoccupati. Spesso, nemmeno la laurea è più una garanzia. Ne sa qualcosa Valentina, 34 anni, palermitana. Dopo il diploma ha cercato invano un lavoro. Allora è tornata a studiare, prendendo una laurea triennale. Ma dopo un primo impiego oggi è di nuovo disoccupata. Per non stare con le mani in mano, quando non dà ripetizioni, fa la volontaria alla Cgil: «A Palermo le uniche offerte di lavoro sono per badanti o call center a 250 euro al mese». Tanti anni a rimboccarsi le maniche, e poi si ritrovano trentenni a carico di mamma e papà. E qualcuno li chiama pure “bamboccioni”.
    articolo di Sofia Basso
    fonte:left.it
     
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  2. Evenstar.
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    Ne conosco di ragazzi che rientrano nei "Neet". Molti hanno lasciato la scuola prima di finire le superiori e devo ammettere che anche io ero indecisa se proseguire o meno, per questo motivo:

    CITAZIONE
    La scuola non è più vissuta come occasione di miglioramento perché offre pochi sbocchi.

    D'altra parte ho proseguito proprio perché trovare lavoro è difficile comunque (anche se si inizia presto) e di lasciarmi vivere e basta, a 25 anni come queste ragazze, proprio non se ne parla, per una questione di realizzazione personale appunto.
    A mio parere è sempre bene cercare di migliorarsi, se proprio non si trova nulla... quell'aspettare che le cose cambino per anni senza fare nulla penso sia peggio della "tortura" di tornare sui banchi di scuola. Piuttosto, se dopo l'Università mi troverò in questa situazione, spero di avere il coraggio di andare a cercare lavoro altrove...
     
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1 replies since 3/4/2014, 08:15   32 views
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