Inchiesta sui nuovi lavoratori della Rete

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  1. Ankh
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    CITAZIONE
    'Noi, i nuovi proletari digitali'
    Ecco chi sono gli operai 2.0


    Lavorano al computer, senza orari né tutele, per realizzare video, software, siti web. Creativi? Mica tanto. Ecco i manovali del nuovo millennio, che in Italia sono già mezzo milione. Raccontateci la vostra esperienza


    Click click. Digita, schiaccia, salva, invia. Click click. Guarda, sposta, cambia esporta. Occhi aperti davanti al monitor, mano sul mouse, comandi da eseguire su un software: se oggi chiedessero a Charlie Chaplin di raccontare il proletario contemporaneo, i suoi Tempi Moderni forse li illustrerebbe così, con uno schiavo del click click. Al computer, più che tra gli ingranaggi di una catena di montaggio.

    Perché di operai stiamo parlando, ma di operai digitali. Ovvero di quei manovali che tengono in piedi i siti web, che sudano perché film e serie tv arrivino in tempo nei nostri salotti, che alimentano il flusso di app, news, streaming e database su cui si appoggiano ormai molti servizi essenziali. Negli Stati Uniti la loro schiera conta già 4 milioni e 700 mila addetti; secondo le stime del governo Obama da qui al 2022 i posti aumenteranno di un milione e mezzo. Per l’Italia, l’ultimo censimento Istat è del 2011, e di impiegati nella fabbrica virtuale ne fotografava 450.606: mezzo milione.

    L'IDENTIKIT
    Gli operai 2.0 sono programmatori, “content editor”, montatori, addetti al “buzz marketing”, tecnici della post produzione, “social media manager”, grafici e specialisti degli effetti sui video. Voci come queste inondano le bacheche di annunci di lavoro. Tanto da esser diventate la speranza di un’intera generazione di giovani (e meno giovani), per i quali le offerte sono doppiamente allettanti: oltre a uno stipendio promettono infatti di essere mestieri creativi. Innovativi quanto le tecnologie che maneggiano.

    Ma è una promessa vera solo in parte. Perché se le condizioni proposte da questi impieghi non si possono certo paragonare al sudore dell’industria pesante, dietro ai loro profili ammiccanti si celano spesso mansioni ripetitive, meccaniche; in una parola: alienanti. I diritti conquistati dai sindacati, poi, sono spesso solo un ricordo del passato: i galoppini della Rete sono abituati ad andare avanti senza orari, a cottimo, a sgobbare da casa come le sarte di una volta e infine ad accettare, nei casi estremi, mini-attività virtuali pagate due dollari l’ora, o addirittura in gettoni da spendere online.

    «È un Far West», sospira Patrizia Tullini, docente di diritto del lavoro all’università di Bologna: «In cui il grosso del potere contrattuale è nelle mani dei committenti». Così, anche se le sirene delle fabbriche sono lontane, le tute blu scomparse, le ciminiere solo archeologia, pure l’industria eterea e rampante dell’informatica ha i suoi manager, i suoi creativi. E i suoi operai. Come quelli di cui abbiamo raccolto le storie.

    LIBERO. O MEGLIO COTTIMISTA
    Davide Rovere ha 36 anni. Comincia ad avere qualche capello bianco, ma indossa ancora felpe col cappuccio e jeans oversize. Tredici anni fa si è laureato in “Industrial design” a Treviso. Dopo mesi di colloqui a vuoto è partito alla ricerca di miglior fortuna a Milano. Il primo ingaggio lo ha trovato subito, da una casa editrice, come “web editor”. Suonava bene. «Mi hanno dato una scrivania di fianco al magazzino», racconta: «Il mio compito era copiare online gli articoli che uscivano sul giornale». Autore, almeno, dei sommari? «No. Dovevo solo riempire i campi con i testi che mi mandavano via mail». Pagato? «A ore anche se ero il più giovane per cui mi chiedevano di restare per dare una mano coi computer».

    È andata avanti per otto mesi. Poi ha deciso di mettersi in proprio. L’ufficio allora è diventato camera sua: una stanza di venti metri quadrati che condivideva in periferia con Matteo Toffalori, un ragazzo di vent’anni anche lui smanettone e aspirante grafico freelance. «Spesso non uscivamo di casa tutto il giorno», ricorda: «Ci accorgevamo alle tre di non aver pranzato. O continuavamo di notte». Sul suo computer, ai piedi del letto, disegnava siti web e dépliant per piccole aziende o artisti emergenti. «Le commesse più noiose sono sempre quelle più redditizie», spiega: «Alle richieste più creative invece mi capita di non chiedere nulla in cambio. Solo perché mi diverto». Stipendio? Come per la maggior parte dei suoi colleghi, ogni volta lo attende una via crucis di fatture pagate a lavoro ultimato, normalmente in ritardo, oppure direttamente in nero.

    Da dicembre però qualcosa è cambiato. Ha messo su famiglia. E con Toffalori ha avviato una società, “Reactio”, specializzata in effetti speciali e animazioni 3D: «Non è un’occupazione molto più gratificante o creativa in sé», spiega Matteo: «Passo ore allo schermo, a spostare linee, modificare figure. La soddisfazione dipende tutta dal risultato: se ne posso andare fiero, ne è valsa la pena. Se invece sono costretto a modificarlo trenta volte perché “qui non piace” e “rifai questo”, alla fine mi viene la nausea». Qualche mese fa un’azienda gli ha chiesto di togliere l’immagine di una bottiglietta d’acqua da un filmato di un’ora e mezza. Compenso: 800 euro. «Una follia! Si trattava di passare con il cancellino su ogni fermo immagine, venticinque volte al secondo». Dopo 35 giorni, ha rinunciato. Senza cavarci un euro.

    È IL FUTURO O IL RITORNO AL PASSATO?
    Digitando “I am a developer” (“Sono uno sviluppatore”) su Google, il motore di ricerca suggerisce di chiudere la frase con “I have no life” (“Non ho una vita”). E la pagina Facebook intitolata così vanta in effetti 867.225 “mi piace”. Persiste l’immagine del programmatore-nerd tagliato fuori dal mondo, chino sullo schermo a digitare comandi per inventare l’applicazione del futuro. Ma insieme a questa figura inizia a farsene strada un’altra. Più concreta e disincantata. Su un forum Marco D. scrive: «Noi programmatori siamo gli operai del nuovo millennio. A meno di non essere geni, è così». Il mito di una generazione insomma è passato dal fondare una start up miliardaria al ritagliarsi un buon lavoro qualunque sia.

    Le tute blu digitali sanno però di avere dei vantaggi rispetto al Cipputi caustico inventato da Altan: «L’orario di solito lo gestisci tu», spiega Marco D.: «E poi più aziende cambi, più usi piattaforme diverse, più acquisisci esperienza e quindi ti confronti con competenze nuove». Insomma: non è la pura ripetitività della catena di montaggio. Ci sono in gioco logica, ragionamento, inventiva. Ne è convinto anche Francesco Wil Grandis, autore di una testimonianza su “Nomadi Digitali” : «Ho vissuto il mio mestiere di programmatore senza stress», racconta. Il padrone l’ha incontrato online, in una piattaforma di outsourcing, ovvero una piazza virtuale in cui le aziende possono trovare professionisti di tutto il mondo e viceversa. Con il suo committente, americano, è stata intesa al primo colpo; per quattro anni ha lavorato per la stessa azienda: buono stipendio, libertà ritagliate su misura, richieste sempre più raffinate. Un caso da manuale.

    LA GRANDE ILLUSIONE
    I lavori digitali sono invitanti per molti motivi. Perché danno l’idea di essere innovativi. E perché sembrano facili: la quasi totalità dei giovani sa usare benissimo Facebook, ad esempio, per stare con gli amici. E allora perché non farlo diventare un lavoro? Ed ecco nascere un potenziale “social media editor”, una persona il cui compito è alimentare discussioni online su un prodotto. La competizione però è altissima. Con diverse conseguenze.

    La prima, ovvia, è l’abbassamento dei salari. La seconda sono le minori garanzie (il classico: «Non ti piace? Vai. Tanto c’è la coda fuori»). E poi c’è un terzo inganno: «Visto che spesso mancano un riconoscimento o un buono stipendio, i lavoratori si autoconvincono sia giusto essere un po’ sfruttati pur di fare un mestiere così innovativo», sostiene Matteo Tarantino, giovane sociologo dell’Università Cattolica di Milano: «In realtà sono operai, ma né le aziende né loro stessi si definiscono così». Perché «l’immaginario è cambiato», spiega: «Ma la sostanza capitalistica resta, anche per l’industria digitale: pochi posti per i veri creativi. Molti per la manodopera a basso valore aggiunto».


    Articolo intero qui: espresso.repubblica.it/inchieste/2014/06/19/news/proletari-digitali-1.170193
     
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    Parliamoci chiaro, i veri lavoratori del web non sono così. La competizione è altissima, vero, ma sono più che altro giovanissimi che credono di guadagnare senza fare nulla. I professionisti ci sono e vengono pagati. Peccato che le aziende che abbiamo compreso di aver bisogno di qualcuno che sappia fare il lavoro sono poche perché molte preferiscono pagare poco e sfruttare il ragazzino che di questo lavoro non ne sa nulla.
    Personalmente mi sono fatta le ossa con i marketplace e poco dopo sono arrivate le prime richieste di clienti. Quest'anno ho fatto il grande salto, lavorando per un prestigioso albergo: gestisco il sito e la pagina Facebook in inglese oltre a lavorare per altri clienti. Il punto sta tutto nell'organizzazione. Passare 24 ore su 24 al pc non è umanamente possibile, proprio trovo falsa e assurda una frase del genere. Perché? Dopo un tot di tempo non ti senti bene fisicamente. Lo so, perché le prime volte è successo anche a me: inesperta, senza sapere come muovermi. Ho modificato lo stile di vita grazie ad alcuni colleghi più grandi di me che mi hanno aiutata molto e adesso ci segnaliamo i lavori a vicenda.
    Non ho mai avuto lavori sottopagati, forse perché ho un occhio allenato, avendo passato 5 anni a lavorare e farmi del nervoso in un'azienda poco seria.
    Ok, ancora adesso mi capitano giorni in cui a mezzanotte e mezza sono ancora immersa nel lavoro, ma non capita spesso e se capita è perché o mi sono organizzata male e pensavo di farcela subito o ho procrastinato e quindi mi sono dovuta ridurre all'ultimo momento.
    Alienata? No, direi proprio di no. Nerd senza vita sociale? Qui mi sento un po' offesa. Nerd assolutamente sì: amo le serie tv e gli anime, oltre ai libri e la musica. Senza vita sociale, grazie al cielo no! Tutto può coesistere.
     
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  3. (elettrica)
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    Dice bene Tibi. Il lavoro su web può avere molte sfaccettature. Ho un'amica che ha aperto partita Iva, ha i suoi clienti e lavora otto ore al giorno, come ogni buon cristiano. Lavoro molte più ore io che sono alle dipendenze, sottopagata.
     
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2 replies since 21/8/2014, 12:14   44 views
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